Se la vita è un viaggio in cui tutto ha senso, di tutte le cose per cui sono qui, tu sei la migliore.

 

Stamattina ho visto da Fiorello i festeggiamenti per Vincenzo Mollica, nonostante gli sforzi credo di aver visto poche volte uno spettacolo così triste. Suppongo che lo avesse messo in conto pure Fiorello, ma che ci sono cose che si fanno anche se già sai che non potranno venire bene. Fiorello avrà avuto i suoi buoni motivi e a Fiorello siamo disposti tutti a concedere tutto, chissà perché. Cioè il perché è noto e non sarò io a ripeterlo. Diciamo che è uno bravo e la chiudiamo qui.

Solo che la visione di Mollica deve aver portato a tutti quel senso di perdita che già ci accompagna e mi ha fatto venire in mente quella frase di Francis Scott Fitzgerald per cui la vita è un processo di disgregamento; di sottrazione in effetti, aggiungerei io.

E’ così e non possiamo farci nulla, poi l’entusiasmo nella voce di Fiorello ci ha fatto sentire ancora più perduti, imprigionati negli anni da festeggiare, nei ricordi da ricordare, nella malattia da celare. Inutilmente. Perché anche se ce l’hanno fatto vedere seduto per sottrarlo all’indecenza, l’indecenza della condizione umana era lì, uno spettacolo aberrante in cui io non riesco ancora a vederne la grazia. Che pure ci deve essere.

(Se la vita è un viaggio in cui tutto ha senso, di tutte le cose per cui sono qui, tu sei la migliore. Ecco, questa è l’unica cosa a cui riesco a pensare per consolarmi.)

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San Michele a Londra

Sono dieci anni che vado a Londra a intervalli di circa tre o quattro mesi, a parte gli infiniti anni del covid, ma solo la data di novembre è fissa, non so neppure perché, forse  lo considero  un mese difficile da sostenere  e allora tanto vale sostenerlo a Londra, che negli anni è diventata un po’ casa, per ragioni che chi conosce capisce e chi non conosce può tranquillamente ignorare.

Londra è un po’ casa e un po’ altrove.

In questi dieci anni ho visto trasformarsi la città e ribaltarsi la mia vita, la notizia della morte di mio padre mi ha raggiunta qui e mi ha convinta maggiormente del legame profondo, intrecciato alla mia storia, non solo a quella di mio figlio, che ho con la città. Ho un portamonete che porto sempre con me quando parto per Londra, che mi serve a non confondere le sterline con gli euro, che mi serviva sarebbe giusto dire, visto che a Londra vivo tranquillamente con la carta di credito senza dover litigare con i tassisti e senza subire gli sguardi di odio degli esercenti se pago anche solo un caffè.

In quel portamonete ho una piccola tessera di legno, probabilmente formava un bracciale, comprata a Brick Lane, in cui è raffigurato San Michele Arcangelo.

E’ sempre lì dentro e la guardo ogni volta che sto per partire e ogni volta mi chiedo perché non la tolgo da lì, visto che mi piace così tanto.

Non so cosa ci facesse una tessera con una raffigurazione di San Michele Arcangelo in un mercatino dell’east London frequentato da miscredenti, al più qualche anglicano, non so neppure bene cosa mi ha attirato di quell’immagine di San Michele Arcangelo, però ricordo esattamente il momento in cui l’ho raccolta dalla bancarella e l’ho stretta nella mia mano, lo ricordo perché ricomposi nella mia memoria tutto quello che sapevo dell’iconografia e dell’agiografia di San Michele e siccome trattasi di potentissimo angelo, pensai di tenermelo stretto.

Un po’ scherzando e un po’ no.

Che poi è più o meno il rapporto che ho con la religione.

Quella piccola tessera con San Michele Arcangelo esce di casa con me solo quando vado a Londra, poi resta lì come se fosse qualcosa che continua a vivere altrove, anche se è nel solito cassetto, è l’unica cosa che non cambia tra me e Londra. E naturalmente il mio piano inconscio è che continui a dominare e ad avere la meglio con quella sua spada sul male, continui a condurre la sua battaglia come nell’Apocalisse contro il drago e soprattutto lo faccia mentre io mi preoccupo semplicemente di continuare a custodirlo nel mio portamonete a pois.

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dal mare di Bodrum

Bodrum la raggiungi in trenta minuti di traghetto dalla Grecia, dal lungo di mare di Kos a quello di Bodrum cambia tutto, il sole tramonta sul mare quando lo guardi da Bodrum. Il Castello visto da lontano è imponente, ti rimanda a tutte le cartoline da Bodrum, quelle in cui i tuoi amici partivano per il giro in Caicco, che io non ho mai fatto e che credo resterà una di quelle cose che non ho mai fatto nella vita.

Da vicino invece si vede benissimo che il castello di autentico ha veramente poco, così se fa troppo caldo e decidi non vederlo, non ti senti neppure in colpa. Credo che il caldo e la siccità qui siano una questione che precede il global warming. Non capisci che sei in Turchia appena arrivi a Bodrum o meglio, hai bisogno di un po’ di tempo.

IL cibo è quasi sempre più a buon mercato rispetto alle isole del Dodecanneso da cui provengo, i  pomodori sono buonissimi, dal profumo intenso, è strano vista la mancanza di acqua. Ho mangiato anche un’insalata greca infinitamente migliore di una qualsiasi insalata greca in Grecia. Cozze fritte e panino con le sarde fritte indimenticabili, ma soprattutto verdure e ortaggi di innumerevoli varietà e davvero di qualità. La cucina turca somiglia molto alla cucina tradizionale del sud ma le materie prime sembrano superiori. La mia è ovviamente una statistica basata sull’esperienza personale. Forse sono stata fortunata, ma ho girato mercati e visitato bancarelle e sentito profumi inebrianti. Il tipo di turismo, internazionale e mediamente danaroso di Bodrum, lo riconosci dal tipo di locali sparsi per la città, se a Istanbul trovare alcool o bere una birra è il risultato di una ricerca, perché l’economia naturalmente si basa soprattutto sui residenti e non sul turismo, a Bodrum c’è l’imbarazzo della scelta, è la città meno turca della Turchia, suppongo. Questa estate infinita la rende ancora affollata in ottobre, le spiagge cittadine si specchiano su quel mare il cui colore suppongo ispiri il nome della costa, turchese. Incredibile e caldissimo. Se chiudo gli occhi potrei giurare di essere sempre stata qui.

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Il caffè tradizionale Turco

Al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul, puoi bere il caffè tradizionale di Mardin, che se non sei l’italiano scemo che il caffè solo in Italia, è buonissimo, aromatizzato con chiodi di garofano e cannella, servito con un dolcetto. In Turchia il caffè viene sempre servito con un dolcetto, devi aspettare che la polveri si posi, bere un caffè non è qualcosa da fare al volo al bancone o prima di uscire, richiede tempo, voglia di conversare e la pazienza per aspettare, è più una lezione di vita che un tonico. Più buono del caffè tradizionale greco (non me ne vogliano gli amici greci sempre e spesso giustamente in lotta sui primati con la Turchia) è servito in tazze colorate, decorate, anche le più semplici non sono mai banali. Su di me le tazze dei caffè turchi esercitano un fascino paralizzante, le guarderei per ore, anche quelle fatte con le decalcomanie più kitsch. Immagino secoli di tradizioni ottomane che ne hanno selezionato le più gradite, le più preziose e che concedono poco al gusto della contemporaneità, però forse sono solo mie fantasie e magari mi sbaglio. Forse anche loro sono invasi da cialde e da Nescafé, forse io chiedo il caffè  tradizionale mentre i turchi detestano aspettare che la polvere si posi.

Non voglio saperlo, ci sono proprio cose che non voglio chiedere e sapere, questa è una di quelle.

Io immagino che c’è una tazza per ogni occasione, una per il caffè dopo pranzo e un’altra per quando arrivano gli ospiti, una per le feste comandate e un’altra per le feste importanti di famiglia. Immagino case foderate di tazze e profumo di caffè speziato. In realtà i turchi preferiscono il tè, lo so, però non disdegnano il caffè e al Cafè Naftalin potrete trovare un piccolo museo della nostalgia, come suggerisce il nome e pure un menu con una frase tratta dalle Lettere a Milena di Kafka vergato  a mano, altra suggestione che mi ha sbalordita. Forse gli appassionati di letteratura che non hanno la fortuna di nascere ricchi devono ringraziare il caffè se riescono a sopravvivere a Istanbul (e anche altrove) devono ringraziare le decalcomanie Kitsch, il rito ottomano del caffè e le lettere a Milena:

“Per qualche motivo che ignoro, mi piaci moltissimo, molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta a far sì che di notte, da solo, mi svegli, e non riuscendo a riaddormentarmi, ti sogni”. Questa la frase capitata a me il giorno il cui sono andata al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul.

Ora quando faccio il caffè metto sempre nel filtro un po’ di polvere di cannella e un chiodo di garofano.

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la stufa in ghisa verde

Di una cosa possiamo essere certi, uno degli effetti del riscaldamento globale è la maggiore presenza di luce, quella che dovrebbe influire sull’umore, quella che quando cede alle ombre ci rende tutti più malinconici e non è che un effetto sulla mancanza di stimolazione della serotonina, insomma questo è più o meno quello che ho capito. Quindi questo autunno catastrofico per la mancanza di acqua e la quantità di sole dovrebbe renderci tutti più contenti.

Capita invece di svegliarsi inondati dalla luce e provare un senso di fastidio. Come quando qualcuno ride per qualcosa che a voi non strappa neppure un sorriso e tu lo guardi male e pensi: ma che avrai da ridere, scemo?

Siccome è lunedì e uno dei miei propositi è cominciare bene la settima, facendo cose tipo la meditazione che però aspetta settimana dopo settimana, perché superato l’ostacolo del lunedì, dal martedì in poi posso sempre dirmi che se ne parla il prossimo lunedì, insomma superato il fatto che anche questo lunedì non se ne parla, ora, meditazione o no, cerco di capire perché il sole sembra che mi sfotta, perché vorrei meno luce, un po’ di pioggerellina almeno che accompagni la mia mestizia e mi assolva dalla poca voglia che ho di dire: ooooh, ma che bella giornata!

Perché quell’aria triste? Non va tutto bene? NO

Allora penso alla mia idea di felicità, che non è una carta di credito con plafond illimitato che mi consenta di viaggiare inseguendo il sole senza neppure preoccuparmi del bagaglio (per quanto…) ma una stufa in ghisa verde scuro davanti alla quale riscaldarmi leggendo sulla poltrona comoda così comoda da non farmi neppure ricordare che ho delle ossa mentre guardo la brughiera, allora: cosa ci faccio su una poltrona davanti a una stufa in ghisa se fuori c’è il sole?

Ma la spiaggia, il sale sulla pelle, camminare sulla sabbia, non è anche quella la tua idea di felicità? Sì ma a me piace il mediterraneo e quelle cose si fanno in estate nel mediterraneo e poi basta ora è tempo di tristezza, spegnete questo sole che ha scocciato

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