Che ci faccio io qui

Se dovessi raccontare cosa mi ha colpito della mia isola, direi senz’altro il profumo. Il profumo che si rincorre e si alterna, quello di giugno quando prevaleva la rosa e la zagara e poi forte il gelsomino, quello di ora; il mirto e poi l’origano e poi il finocchietto e poi, improvviso, il gelsomino.

Tra giugno e luglio la differenza è quella che intercorre tra due stagioni, non c’è molta gente e questo rende tutto rarefatto. Da qualche giorno viene una tortora a osservarmi, se fossimo di più non oserebbe, credo. Capisco perché la signora Durrell portò i suoi figli in un’isola dello ionio, a Corfù, lei e i suoi bellissimi figli.

Capisco che uno di loro sia diventato un importante naturalista, oltre che scrittore, lo capisco profondamente anzi lo ammetto: Una famiglia e altri animali è uno di quei libri che mi ha ispirata e portata fin qui, non troppo lontano da casa, ma altrove. Io lo chiamo il mio ritorno a casa da espatriata. Dimensione che mi segue anche a casa. Poi ho un altro ricordo, dal film Il Danno; Jeremy Irons con le buste della spesa che torna a casa, dopo Il Danno senza speranza di redenzione, che ha causato. Non si capisce dove è, ma si capisce che si tratta di un’isola greca.

Non credo di aver causato alcun danno, tranne che a me stessa (come la maggior parte degli esseri umani) ma davvero, credo che entrambi questi riferimenti mi abbiano ispirata e ora sono qui, su un’isola che fa i conti con la mancanza di turismo, gli aerei e le vacanze che vengono cancellate, la natura si allarga, prende più spazio, gli abitanti non sembrano contenti. C’è più gente che a giugno, ma sempre poca gente, dicono. Per me che non cerco mondanità, va benissimo però ho anche io la percezione di un’isola e di una capacità di accoglienza sovradimensionata rispetto a chi la occupa.

Ieri ho fatto lezione di Yoga con un gruppo di ragazze – signore di Sami, erano giorni che mi appostavo davanti al cortile della scuola in cui le vedevo praticare. In un altro momento avrei lasciato perdere, avrei rinunciato. Invece ho aspettato e ho chiesto se potevo partecipare, così ieri sera ho fatto una bella lezione di Yoga in compagnia, con una maestra che parlava greco, ma lo yoga ha questo potere, non serve conoscere la lingua, se conosci la pratica, basta guardare e anche guardare non è del tutto necessario, io capivo oreà e anche polì oreà comunque 😀

La lezione è stata intensa, una lezione di Vinyasa immersa completamente tra il verde della collina e la bandiera greca che vedevo ogni volta che alzavo lo sguardo. Che ci faccio io qui? Non lo so, ma è divertente e anche incredibile.

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Yoga di Emmanuel Carrère

Ho finito di leggere Yoga di  Emmanuel Carrère, tanta gente sta leggendo Yoga in questi giorni, vedo scorrere le copertine dalle foto ogni volta che apro Facebook o Instagram, di solito non leggo mai le recensioni prima di leggere i libri che ho deciso di leggere, però mi è capitato di guardare quello che hanno scritto Parente e Guia Soncini, non mi sono preoccupata di quello che scrivevano, non mi preoccupa non essere d’accordo con loro, mi sarebbe dispiaciuto di più leggere qualche commento negativo di qualcuno alla cui opinione tengo. La Soncini e Parente dicevano cose sovrapponibili: è un concentrato di banalità che neppure la meno scaltra delle influencer, cose su questo tono. Lo hanno trattato, mi pare, come se davvero fosse un libro sullo Yoga. Forse hanno letto le prime 30 pagine o forse parlare male di uno scrittore che vende tanto per il solo fatto che parla della sua vita, oltre ad essere irritante, in effetti può risultare tale, è una specie di obbligo.

A me Carrère piace, neppure sarei capace di spiegare il perché, però ha cominciato a piacermi quando ho letto L’Avversario che è ancora uno dei libri a cui penso spesso, non sono tanti i libri a cui penso o che semplicemente ricordo, di solito mi oriento così, se un libro mi è piaciuto, lo ricordo, se un libro mi è piaciuto e lo ricordo pure, allora deve essere un bel libro. A me capita di leggere libri che mi piacciono mentre li leggo, ma poi quando cerco di ricordarne qualche dettaglio mi accorgo che non lo ricordo, la prima volta mi è successo con L’Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera, prima di allora c’erano i libri che mi erano piaciuti e quelli che non mi erano piaciuti, da quel momento in poi ci sono stati i libri che mi sono piaciuti ma che non ricordo.

I libri di Carrère mi sono piaciuti tutti, forse L’Avversario e Limonov di più. Ma in generale mi sono piaciuti tutti e non voglio parlare di lui con i suoi detrattori, capisco le loro ragioni, ma non mi interessano, non c’è nulla di quello che scrive che non condivido, forse sì. Forse su questo qualcosa c’è, ma è davvero un dettaglio.

IL libro di Carrère parla di quello che è successo a Carrère mentre aveva in mente di scrivere un libro che lui stesso definisce, accattivante, sullo Yoga. Torna spesso sulla questione e anche sul fatto che un libro con quel titolo avrebbe venduto molto, come in effetti credo stia accadendo, ma io non l’ho comprato per il titolo, anche se anche io vorrei scrivere un libro accattivante sullo yoga. Poi c’è di mezzo la causa con la ex moglie che lo ha accusato di aver infranto la promessa di non parlare della loro vita, promessa se non sbaglio fatto sotto forma di accordo legale, non riesco a solidarizzare con lei però,  perché Carrère se non racconta le vite degli altri, racconta la sua vita, come fosse lui stesso un genere a parte. Però ho trovato divertente che la ex moglie abbia specificato che non dice neppure la verità quando dice di parlare di sé stesso, a Leros ad esempio, Carrère non sarebbe stato due mesi per fare volontariato in un centro di raccolta di immigrati, ma un fine settimana. Veramente ha poca importanza credo, ma capisco che la ex moglie abbia voluto in qualche modo, sminuirlo.

Ora questo post in cui dovrei parlare del libro di Carrère,  è scritto come un libro di Carrère, ovvero non parla di quel che promette. Quello che dice Carrère sullo Yoga è trascurabile, perché condivisibile da chiunque pratichi Yoga, può irritare solo, anche se sono tanti, quelli che considerano lo yoga un passatempo à la page per signorine e signore un po’ annoiate, non importa, ognuno si tenga i propri pregiudizi, io vorrei parlare del libro di Carrère e del perché mi è piaciuto.

Saltando la parte in cui parla della meditazione, del suo incompiuto ritiro di meditazione Vipassana, che fa corrispondere al momento della sua vita in cui ancora tutto andava bene, l’intuizione del libro è esattamente l’opposto di quella dichiarata volendo parlare di Yoga, il cui significato della parola, detto brevemente ma proprio brevemente è: unione. Invece tutte le parole di Carrère portano a questa espressione: La vita è uno strumento congegnato per separare. Altro che unione. Fitzgerald invece diceva, lo riporta Carrère, che la vita è un processo di disgregamento. Poi rispetto al lavoro cinematografico e letterario cita Truffault; un film è un processo di perdita, in cui quello che conta è il saldo tra quello che avevi previsto e quello che è venuto. Se il saldo si avvicina a quello che avevi in mente, vuol dire che hai fatto un buon lavoro.

Ci sarebbe da chiedersi quanto era lontano il progetto di Carrère dal risultato e se si è reso conto che ci ha dato le chiavi per giudicarlo, credo di sì, che se ne sia resoconto.

Il libro ha anche un lieto fine, ma ce l’ha proprio voluto dare, come se ce lo fossimo meritati un lieto fine. Mi auguro che quella parte sia autobiografica e che sia ancora a Maiorca con l’insegnante di Yoga come quel giorno in cui si sentiva pienamente vivo. Perché se quello del libro non deve essere un finale particolarmente brillante o originale, almeno che qualcuno, infine,  sia felice.

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brucia tutto e vai in Africa, Celestino!

Stamattina ho letto su un giornale online una citazione di una canzone: “Ognuno è figlio della sua sconfitta / Ognuno è libero col suo destino / Butta la chiave e vai in Africa, Celestino!”. Ho cercato il testo della canzone (Dalla, De Gregori) e forse la citazione non è proprio fedele però mi sembrata comunque perfetta. Così mi sono venute in mente altre parole sulla fuga e il sentirsi leggeri, così leggeri da andare,  recentemente ascoltate in una serie turca (sì, mi trascrivo poesie e testi dalle serie turche): “In che tempo sono? Sono in un istante, nel suo flusso inafferrabile. In uno strano sogno a colori. Impigliato nella situazione. Neppure le piume portate dal vento sono leggere come me. La mia testa un enorme mulino, la mia anima un viaggiatore sperduto mentre cerca lo scopo del suo viaggio. Come se non avessi radici nel mondo. Mi sento calmo. Blu, sono nel mezzo di un colore blu.” (Ahmet Hamdi Tanpinar). E’ vero che ognuno cerca le parole di cui ha bisogno, che risuonano con quello a cui tendiamo. In ogni caso mentre bevevo il caffè pensavo al mio blu, il mio blu è stato sempre e naturalmente il mare, il mio piano segreto di fuga, neanche tanto segreto. Sono tra coloro che aspettano la fine di questo istante che ci impiglia in una situazione eterna per attuare i suoi i piani di fuga, eh no, per favore non tirate fuori la storia che ci sono persone che da questa situazione di stallo devono imparare, per non parlare di quelli che hanno sofferto, stanno soffrendo, che non ci sono più. Vorrei dire che non è una gara, chi ha imparato doveva imparare, chi non vuole imparare non imparerà, io potrei aver imparato in un altro momento o potrei non avere tutto questo tempo per restare impigliata, esistono le storie collettive e quelle individuali, ma resto e preparo il mio piano di fuga. Quando saremo liberi di muoverci prevedo un’esplosione di piani fuga meticolosamente elaborati in questi mesi, per me la fuga è sopravvivenza, lo è sempre stata, nell’attraversamento io mi acquieto, è una distorsione, uno squilibrio forse, non so non importa, andare mi tira su il morale. La fuga nella distanza, non tanto dalle persone, non sono una che abbandona e non lo considero neppure un merito. E’ proprio che sono così, la dimensione di uscita da me, quella mi attrae, la mia sirena di Ulisse.

Celestino bruciava tutto e andava in Africa, perché non aveva centrato gli obiettivi, la libertà di non aver centrato gli obiettivi è grandiosa, inutile insistere: chiudi la porta di casa e vai in Africa, Celestino!

 

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la spesa di oggi

Stamattina sono andata da Lidl, da cui ho sviluppato una dipendenza in questa mesi di confinamento, tutto è cominciato seguendo un gruppo di facebook di alimentazione per pazienti oncologici, una delle partecipanti,  lamentava il fatto di aver speso per un pezzo di pecorino una cifra da urlo, la nutrizionista, bravissima,  che ora ci guida da Miami dove nel frattempo si è trasferita e che non è neppure una grande sostenitrice del biologico, la sgridò dicendole che non c’era assolutamente bisogno di svenarsi per mangiare bene e che lei stessa anche da Lidl aveva trovato dei pecorini buonissimi. Così, fatto un rapido calcolo delle cifre folli che spendevo per mangiare, sono entrata in punta di piedi nel tunnel di Lidl, ho imparato a leggere bene le etichette, ho smesso di frequentare Natura Sì e sviluppato la mia  nuova dipendenza.

Avendo anche un supermercato sotto casa, per fortuna non ci vado proprio tutte le settimane e non compro proprio tutto da lì, però mi sono iscritta a un gruppo di Facebook di recensioni di prodotti in vendita da Lidl, quindi sono aggiornatissima. Il problema è che non compro solo roba da mangiare, per cui ho la casa piena di prodotti  imperdibili, convenienti e inutili. Sono il segmento di consumo che il marchio insegue: ti convinco con qualche prodotto poi però tu non smetti e so io come non farti smettere, va bene ci sto; del resto questi mesi in qualche modo bisogna passarli.

Stamattina  al banchetto di esposizione di fiori c’erano delle piantine in sottovasi a forma di animale, io ho scelto la gallina, naturalmente, e ho preso anche due mazzi di tulipani gialli, perché sto vedendo una serie in cui lui, il mio eroe, torna a casa con un mazzo di tulipani gialli, li ho presi anche perché non ricordo più esattamente da quando non ricevo un mazzo di fiori e rivendicarlo per ottenerli non farebbe lo stesso effetto. Li ho incastrati nella parte superiore del carrello, quella in cui non si dovrebbero mettere i bambini. Così una signora  dopo l’altra (solo le signore, perché?) mi ha chiesto dove avrebbe potuto trovarli e io glieli ho indicati, ce ne erano tanti. Fino a quando non ho incontrato una signora che mi ha fermata per consigliarmi di prenderne  mazzi in cui il tulipano è più chiuso perché ci mettono poco a piegarsi altrimenti e allora io sono andata a cambiarli ma non ce n’erano più gialli, mi sarei tenuta i miei se non fosse che non volevo dispiacere la signora perché sapevo che l’avrei rincontrata (e infatti così è stato), le avevo detto che li avrei cambiati e quindi ho preso quelli bianchi e quelli bianchi e rosa perché mi sono ricordata di un meraviglioso mazzo di tulipani bianchi ricevuti un giorno (e per i quali vorrei ringraziare G., per i tulipani  e per tante altre cose di cui so che non avrò mai modo di ringraziarlo ma che lui sa). Comunque vicino al banco dei fiori c’era una signora che guardava avidamente le piantine con i sottovasi a forma di animale. Sono carine vero?, le ho detto, lei mi ha risposto: Sì, sono carine ma costano 3.90 e ha taciuto ma io ho capito cosa voleva dire. Sono 3.90 per qualcosa di inutile che vorrei io ma per la quale quando torno a casa sarò rimproverata. Normalmente sono una specie di essere asociale e a tratti sociopatico specie in un ambiente come un supermercato, eppure la signora era così tenera che le ho detto: non rinunci signora, sono allegre, è Pasqua, le faranno compagnia. La signora si è illuminata e mi ha detto: mi aiuti a sceglierne una bella come lei. Mi ha detto proprio così e proprio è stata gentile perché io avevo i capelli da strega e i postumi di una settimana non delle migliori, a parte la mascherina che infatti oggi ho indossato volentieri per coprirmi. L’ho scelta con cura e gliel’ho data, mi ha sorriso e io le ho sorriso e le ho augurato Buona Pasqua e poi un’altra signora mi ha chiesto se preferivo il coniglio o la gallina e no signora, la gallina è più bella e tutto questo per dire che Lidl Bari dovrebbe almeno regalarmi un mazzo di tulipani gialli, la prossima volta.

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giorno 17

Il giorno della scintilla.
Uno dei sogni che ricordo in maniera più vivida, l’ho fatto da piccola, non saprei quanto piccola, ero piccola, questo lo so. Sognai un albero di Natale bello e scintillante con un piccolo pacchetto appeso per me. Nel pacchetto c’era una scintilla, immaginate una lucciola però 100 volte più luminosa e quel regalo, nel sogno, mi emozionò così tanto che forse per questo ancora lo ricordo. Sognai evidentemente quella che ai bambini doveva sembrare la luce del Natale, sognai un Natale luminoso come quello che desiderano i bambini e che, naturalmente, non ebbi. Associo il sogno a tutto il desiderio di luci di Natale che ho più meno tutto l’anno. Non è desiderio di Natale, sia chiaro, ma di lucine di Natale. Ho sempre cercato di illuminare con le lucine le tavole estive all’aperto, sono romantiche e piene di promesse.
Poi le promesse non vengono mantenute, ma per tutto il tempo in cui sono immersa nelle lucine, io ci spero. Ora mi faccio meno problemi di quanti me ne facessi nel tempo che è stato necessario per passare dall’essere piccola bambina attratta dalle lucine all’essere Gallinaccia attratta dalle lucine, ho meno paura di sembrare troppo scintillante, non solo a Natale.
Ho bandito il nero, che pure è un colore che ho amato molto, lo indosso sempre meno e sto attenta a non comprare indumenti neri. Forse è solo una fase, non lo so. Mi piacciono i colori, il verde col viola, il rosa con il rosso. Penso a quando vedevo le mie coetanee, cioè quelle che ora sarebbero state le mie coetanee, vestite di sberluccichi e di paillettes e mi chiedevo come facessero a non vergognarsi di vestirsi come se avessero avuto cinque anni, ma ora lo so, non erano interessate al giudizio degli altri. Allora non sapevo che si resta bambine di cinque anni anche a novanta anni e che a un certo punto non sei più interessata a convincere il mondo di essere una personcina elegante. Fai pace con la bambina di cinque anni che è in te, scopri che vestirsi di colori sgargianti, forse non è chic, anzi sicuramente non lo è, ma è divertente. E divertirsi un po’ è l’unica cosa che conta.

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giorno 16

Il giorno delle sciarpe perse. Avevo una sciarpa, una sciarpa bellissima, di velluto impalpabile, velluto francese, di un famoso stilista, tanto tempo fa, quando ero disposta a spendere per una sciarpa quello che ora spendo per vestirmi in tre anni. Quando credevo che un giorno avrei avuto un plaid di cachemire sul divano, un foulard di Hermès nella borsa e almeno una Le Creuset in cucina. Mi pareva ovvio.

Comunque l’abbandonai sulla poltrona di un cinema per cinque minuti e non la trovai più. Che dolore. Amavo quella sciarpa, talmente tanto che non sono più riuscita a voler così bene a un’altra. Ma era una cosa, non potevo farne un dramma e infatti mi affrettai a comprarne un’altra dello stesso stilista. Ma non era così bella, non era quella. Ho sofferto per quella sciarpa, non ho mai avuto il coraggio di confessarmelo perché non era etico, ma ho davvero sofferto. Ora capisco che entrava in risonanza con qualcosa, qualcosa di altro. Qualche anno fa mi è stato regalo un foulard, anche se il foulard non era lì per me, stavamo mettendo ordine in un ripostiglio, ed è venuto fuori un pacchetto, era il premio di una lotteria, qualcosa del genere. Era un foulard di seta di uno stilista meno famoso, ma un foulard bello e con i colori freddi, come piacciono a me. Non è stato amore a prima vista ma è stato un amore intenso anche quello con il foulard, riusciva sempre ad aggiungere quello che mancava, a proteggermi dal freddo, a farmi sentire meglio. Un giorno l’ho abbandonato al tavolo di un ristorante di Richmond, ero andata in bagno e credevo di tornare al tavolo, quando sono tornata i miei commensali erano fuori a fumare e poi siamo andati via e me ne sono dimenticata. Quando ho realizzato, ho deciso che il giorno dopo sarei andata a riprenderlo. Ma il giorno dopo si è rivelato uno di quelli che contano in una vita e sono tornata precipitosamente a casa. Quindi adesso sono anche senza il mio foulard. Con meno tempo per essere certa che troverò quello giusto, quello che risuona con il mio dolore e con il mio amore.

Non sono cose che si possono raccontare, si finisce per fare la parte delle persone aride, attaccate alle cose che poi si sa, le cose non rendono felici. Come se le persone invece sì.

 

 

 

 

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