Il caffè tradizionale Turco

Al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul, puoi bere il caffè tradizionale di Mardin, che se non sei l’italiano scemo che il caffè solo in Italia, è buonissimo, aromatizzato con chiodi di garofano e cannella, servito con un dolcetto. In Turchia il caffè viene sempre servito con un dolcetto, devi aspettare che la polveri si posi, bere un caffè non è qualcosa da fare al volo al bancone o prima di uscire, richiede tempo, voglia di conversare e la pazienza per aspettare, è più una lezione di vita che un tonico. Più buono del caffè tradizionale greco (non me ne vogliano gli amici greci sempre e spesso giustamente in lotta sui primati con la Turchia) è servito in tazze colorate, decorate, anche le più semplici non sono mai banali. Su di me le tazze dei caffè turchi esercitano un fascino paralizzante, le guarderei per ore, anche quelle fatte con le decalcomanie più kitsch. Immagino secoli di tradizioni ottomane che ne hanno selezionato le più gradite, le più preziose e che concedono poco al gusto della contemporaneità, però forse sono solo mie fantasie e magari mi sbaglio. Forse anche loro sono invasi da cialde e da Nescafé, forse io chiedo il caffè  tradizionale mentre i turchi detestano aspettare che la polvere si posi.

Non voglio saperlo, ci sono proprio cose che non voglio chiedere e sapere, questa è una di quelle.

Io immagino che c’è una tazza per ogni occasione, una per il caffè dopo pranzo e un’altra per quando arrivano gli ospiti, una per le feste comandate e un’altra per le feste importanti di famiglia. Immagino case foderate di tazze e profumo di caffè speziato. In realtà i turchi preferiscono il tè, lo so, però non disdegnano il caffè e al Cafè Naftalin potrete trovare un piccolo museo della nostalgia, come suggerisce il nome e pure un menu con una frase tratta dalle Lettere a Milena di Kafka vergato  a mano, altra suggestione che mi ha sbalordita. Forse gli appassionati di letteratura che non hanno la fortuna di nascere ricchi devono ringraziare il caffè se riescono a sopravvivere a Istanbul (e anche altrove) devono ringraziare le decalcomanie Kitsch, il rito ottomano del caffè e le lettere a Milena:

“Per qualche motivo che ignoro, mi piaci moltissimo, molto, niente di irragionevole, direi quel poco che basta a far sì che di notte, da solo, mi svegli, e non riuscendo a riaddormentarmi, ti sogni”. Questa la frase capitata a me il giorno il cui sono andata al Cafe Naftalin nel quartiere di Balat a Istanbul.

Ora quando faccio il caffè metto sempre nel filtro un po’ di polvere di cannella e un chiodo di garofano.

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La Morte di Ivan Il’ič

Cercando una lettura adatta a questi giorni cupi (ho prima scoperto che Bulkakov era Ucraino e in effetti il Maestro e Margherita è il libro meno “russo”, tra i russi letti)  mi sono imbattuta ne la Morte di Ivan Il’ič di Tolstoj.

Ivan Il’ic attraversa la sua vita nella convinzione di doversi dedicare alla piacevolezza e al decoro, per questo piacevolmente sceglie una carriera decorosa, una moglie che la buona società, il cui parere tiene in gran conto, considera amabile e graziosa e si dedica con dignità al suo lavoro e alla sua famiglia e pur non ricevendo grandi slanci da quest’ultima e gratificazioni dal lavoro, tuttavia prosegue convinto come è che l’unica cosa che davvero conti è il giudizio benevolo che il mondo riserva a chi conduce la vita con decoro. Ivan Il’ič trova se stesso attraverso lo sguardo benevolo degli altri, per ottenerlo è disposto a non chiedersi neppure se esiste un modo diverso di vivere, una vita senza eccessi e sbavature è l’unica garanzia di vita serena e di successo.

Accade però che a causa di un banale incidente Ivan Ill’ič si ammali fino a diventare totalmente dipendente dagli altri e che ben presto si renda conto che la sua malattia lo condurrà alla morte.

Nella sua vita piacevole e decorosa irrompe come una macchia la solitudine del dolore. La sua famiglia lo tratta come un vecchio brontolone (ha 45 anni, ma siamo nella Russia dell’800) e non sembra considerarlo più di un indecoroso peso.

L’infermità e la solitudine lo spingono a chiedersi perché, ma la voce dentro lui risponde, naturalmente, che non c’è un perché e allora comincia a pensare alla sua vita, rivede sua madre, risente il fruscio del suo vestito e insieme all’infanzia gli unici momenti di cui ha davvero nostalgia.

Eppure nel manuale di logica del Kiesewetter,  aveva letto:

“Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio e in alcun modo in rapporto a sé stesso […] Certo che Caio è mortale, lui è giusto che muoia, ma io, piccolo Vanja, io, Ivan Il’ic, con tutti i miei sentimenti, i miei pensieri, io sono un’altra cosa. Non è possibile che mi tocchi morire. Sarebbe troppo orribile.”

E’ più o meno così che va, per tutti,  non a caso il racconto si apre con i colleghi che apprendono la notizia della morte di Ivan Il’ič, mesti ma in fondo contenti. Non è toccato a loro.

Tostoj attraverso Ivan Il’ič ci spiega la sua visione della vita, un puntino nero che scorre in basso e che prende una velocità inversamente proporzionale alla distanza, mentre al mondo esterno appare la tua crescita, la tua carriera, la tua vita che si espande, tutto in realtà procede al contrario, a togliere, tutto porta alla morte, tutto quello che è intorno alla vita è morte. L’arrivo della morte è la fine della morte, la liberazione. A me sembra una grande intuizione. La morte finisce quando arriva. Questo non vuol dire che non dobbiamo vivere nel migliori del modi.

Ero partita alla ricerca di un autore che mi desse un senso e sono finita qui.

 

 

 

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Leonard e Marianne

Leonard Cohen arriva a Hydra agli inizi degli anni ‘60, una piccola isola a un’ora circa da Atene, lui racconta che ci arrivò per caso e fu abbagliato dalla bellezza della vita semplice  su quella isola luccicante.  Non è ancora un cantautore, neppure immagina che lo diventerà, è già uno scrittore, controverso e poco conosciuto ma neppure il libro che scriverà a Hydra, Beautiful Losers, gli darà un po’ della fama e dei soldi a cui aspira.

A Hydra negli anni ’60 c’è una comunità di artisti e intellettuali e Cohen lascia Londra, a quell’epoca viveva lì, e compra a Hydra una casa per 1500 dollari. In quegli anni in un’isola della Grecia si viveva con 1000 dollari all’anno.

Leonard a Hydra scrive, fa uso di droghe, ma soprattutto incontra Marianne Ilhen, una ragazza norvegese, sposata con uno scrittore. Marianne  naturalmente è la Marianne di “So Long Marianne”. Leonard si prende prima cura di suo figlio a cui fa da padre e inizia una storia d’amore con Marianne che non finisce anche quando finisce.

Leonard e Marianne sono belli di quella bellezza che hanno solo coloro che non ne sono consapevoli, camminano per l’isola, fanno il bagno e nuotano nudi, Leonard scrive e Marianne gli lascia cestini con panini e bevande. Sono gli anni in cui le famiglie allargate e l’amore libero sono un dato di fatto, non una possibilità da costruire, sono anche anni in cui l’amore libero fa molti danni, perché ai figli l’amore libero dei genitori non piace per niente e perché il più delle volte dietro a un dei componenti della coppia che vive liberamente, c’è qualcuno che soffre immensamente.

Tra Leonard e Marianne va un po’ così. “Avrei voluto rinchiuderlo in una stanza e ingoiare la chiave, tutti volevano Leonard, per quanto si dava per come era compassionevole”, dirà Marianne, “Ma se scegli l’uomo bello, forte e oscuro, va così”.

Tra Leonard e Marianne l’amore dura 8 anni ma parliamo di una storia che non si interrompe mai del tutto, quando Leonard lascia Hydra definitivamente, vuole con sé Marianne e il suo bambino, ma sarà un disastro. Marianne riprende la sua vita, lascia suo figlio in un collegio in Inghilterra convinta di fare bene e di farlo perché necessita di una istruzione, e continua la sua vita tra nuovi amori e nostalgia. Rinuncia ad avere il figlio di Cohen perché Cohen non vuole figli, fa quello che fanno le donne che devono essere evolute e disinvolte, senza averne nessuna voglia.

Anche Marianne lascia Hydra, molti anni dopo, e torna a Oslo, dove farà la segretaria e sposerà Ian, un brav’uomo, se si può usare questa espressione senza che sembri un insulto. Suo figlio, naturalmente sarà quello che chiameremo un figlio problematico, altro grande classico delle famiglie aperte di quegli anni.

A cambiare il corso della vita di Leonard e Marianne è proprio la svolta musicale di Leonard, che dal punto di vista di Marianne, le rovina la vita.

Leonard Cohen piaceva moltissimo alle donne un po’ depresse (lo dicono i suoi musicisti, non io) che ascoltavano le sue canzoni malinconiche e lui non disdegnava la loro compagnia, per un pomeriggio o anche di più, la vita di Marianne senza Leonard fu meno brillante, ma lui non smise mai di sostenerla anche economicamente, per un po’ la storia con Marianne si sovrappose a quella con la Suzanne della canzone, ma dell’amore con Suzanne non abbiamo testimonianze così calorose, sembra che Suzanne fosse un po’ perfida, questo raccontano gli amici.

Leonard Cohen a un certo punto della sua vita si ritira in un monastero buddista per 6 anni, quando ritorna alla vita “normale” ha 70 anni e la sua segretaria gli ha rubato 5 milioni di dollari che non recupererà, quindi è costretto a rimettersi a cantare, lo fa ottenendo un grande successo. Per il concerto di Oslo, Marianne fu invitata insieme a Ian. Le immagini di quel concerto e i loro sguardi sono visibili nel film documentario “Leonard & Marianne: words of love”. (L’ho visto ieri sera e sa signora mia, mi è piaciuto molto; col finale ho pianto tanto…).

Marianne si ammala di leucemia e un giorno, quando sta per morire, chiede a un amico comune di informare Leonard della sua morte ormai prossima. In meno di due ore la raggiunge questo messaggio: “Carissima Marianne, sono proprio dietro di te, abbastanza vicino da prenderti la mano. Non ho mai dimenticato il tuo amore e la tua bellezza. Ma questo già lo sai, non ho bisogno di ripeterlo. Fai buon viaggio, amica mia. Ci vediamo lungo la strada. Con infinito amore e gratitudine, il tuo Leonard.” Leonard Cohen muore tre mesi dopo  Marianne, la sua musa.

Hydra nel frattempo, come dirà nel documentario l’unico amico di Marianne che ancora ci vive, è diventata un parco giochi per ricchi.

 

 

 

 

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Puglia e americhe

Partecipo e assisto, impossibile sottrarsi, allo storytelling sulla Puglia, un po’ compiaciuta e un po’ stupita; a volte mi sento raccontata come il resto del mondo raccontava “le americhe” scoperte da Cristoforo Colombo. Colombo aveva scoperto l’America, ma l’America c’era anche prima e con l’America i suoi abitanti, no? Gli abitanti dell’America, l’America l’avevano già scoperta, vero? Si può dire che hanno dovuto subire il racconto degli invasori?

Facendo le debite proporzioni (non ci sono invasori, ma turisti che aiutano la nostra economia) non è un po’ stucchevole la retorica sulla magia della Puglia? La Puglia è Brand che tira, tira moltissimo, lo abbiamo capito,  perché il suo paesaggio lo rende possibile, perché il cibo è buono, perché l’architettura spontanea la rende naïve e stupefacente, (se non si sposta troppo lo sguardo, se si guarda fissi un punto, perché c’è anche tanta, tanta bruttezza), la Puglia è tutto questo, nessuno lo vuole negare, ma sta diventando difficile convivere con la Puglia da cartolina, perché è anche molto altro, ad esempio molta parte dell’industria turistica è in mano alla criminalità, lo sappiamo noi nativi delle americhe, ma partecipiamo alla nascita e alla crescita del luogo comune di terra mmmmeravigliosa, anche il concetto di Puglia deriva dalla recente operazione di brandizzazione: perché terra di Bari, terra d’Otranto e Capitanata erano e in larga parte sono, 3 luoghi diversi, infatti si parlava di Puglie, adesso che la Puglia è di moda, i fuori sede “scendono in PPPuglia”, con tre P, come se esistesse, come se non fosse, un giusto, ben riuscito, prodotto del marketing dell’Apulia Film Commission.

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Che ci faccio io qui

Se dovessi raccontare cosa mi ha colpito della mia isola, direi senz’altro il profumo. Il profumo che si rincorre e si alterna, quello di giugno quando prevaleva la rosa e la zagara e poi forte il gelsomino, quello di ora; il mirto e poi l’origano e poi il finocchietto e poi, improvviso, il gelsomino.

Tra giugno e luglio la differenza è quella che intercorre tra due stagioni, non c’è molta gente e questo rende tutto rarefatto. Da qualche giorno viene una tortora a osservarmi, se fossimo di più non oserebbe, credo. Capisco perché la signora Durrell portò i suoi figli in un’isola dello ionio, a Corfù, lei e i suoi bellissimi figli.

Capisco che uno di loro sia diventato un importante naturalista, oltre che scrittore, lo capisco profondamente anzi lo ammetto: Una famiglia e altri animali è uno di quei libri che mi ha ispirata e portata fin qui, non troppo lontano da casa, ma altrove. Io lo chiamo il mio ritorno a casa da espatriata. Dimensione che mi segue anche a casa. Poi ho un altro ricordo, dal film Il Danno; Jeremy Irons con le buste della spesa che torna a casa, dopo Il Danno senza speranza di redenzione, che ha causato. Non si capisce dove è, ma si capisce che si tratta di un’isola greca.

Non credo di aver causato alcun danno, tranne che a me stessa (come la maggior parte degli esseri umani) ma davvero, credo che entrambi questi riferimenti mi abbiano ispirata e ora sono qui, su un’isola che fa i conti con la mancanza di turismo, gli aerei e le vacanze che vengono cancellate, la natura si allarga, prende più spazio, gli abitanti non sembrano contenti. C’è più gente che a giugno, ma sempre poca gente, dicono. Per me che non cerco mondanità, va benissimo però ho anche io la percezione di un’isola e di una capacità di accoglienza sovradimensionata rispetto a chi la occupa.

Ieri ho fatto lezione di Yoga con un gruppo di ragazze – signore di Sami, erano giorni che mi appostavo davanti al cortile della scuola in cui le vedevo praticare. In un altro momento avrei lasciato perdere, avrei rinunciato. Invece ho aspettato e ho chiesto se potevo partecipare, così ieri sera ho fatto una bella lezione di Yoga in compagnia, con una maestra che parlava greco, ma lo yoga ha questo potere, non serve conoscere la lingua, se conosci la pratica, basta guardare e anche guardare non è del tutto necessario, io capivo oreà e anche polì oreà comunque 😀

La lezione è stata intensa, una lezione di Vinyasa immersa completamente tra il verde della collina e la bandiera greca che vedevo ogni volta che alzavo lo sguardo. Che ci faccio io qui? Non lo so, ma è divertente e anche incredibile.

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Gita a Brighton

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Brighton dista da Londra circa un’ora, decidemmo di andarci in una mattina di novembre, cosa sapevo di Brighton? Ripensavo alle scene del film tratto dal libro di Graham Green, Fine di una storia, con Ralfh Fiennes. Ricordavo il Pier, poi una giostra, l’atmosfera lattiginosa, da fine di una storia. Decadente e triste. Però mi piaceva l’idea di fare una gita e J., che in quei giorni era una compagnia insolitamente paziente e con lo sguardo rivolto a me, la scelse come destinazione. Così prendemmo il treno da King’s Cross, dove io cercai con lo sguardo il binario di Harry Potter ma non lo dissi a J., per non essere derisa. Molto tempo dopo, come se si fosse accorto della mia ricerca, ma non mi avesse detto nulla per non imbarazzarmi, mi disse che a King’s Cross, c’è solo una targa che parla di Harry Potter e del suo binario, dove i ragazzini fanno i selfie, beh gli dissi, non è che uno si aspetta proprio di trovare il binario numero 9 e tre quarti, senza sentire la mia risposta continuò dicendomi che nel libro l’autrice descrive la stazione di Euston, pur  chiamandola King’s Cross e che poi a King’s Cross avevano dovuto rimediare con una targa alla fama improvvisa e immeritata. Va bene, aggiunsi, immeritata, non esageriamo, stiamo parlando di una storia in cui c’è poco di realistico. Va bene mamma, hai capito, chiuse l’argomento.

Comunque quel giorno andammo a Brighton e c’era il sole, il sole inatteso e prezioso di inizio novembre a Brighton. La città non è grande, la girammo forse in un paio d’ore e con tutta calma, a me sembrò una piccola Londra, con un lato più bohémienne e struggente, per via del mare.

Ci fermammo a mangiare in uno di quei ristoranti che si affacciano sulla strada del mare, un grande ristorante pieno di gente che mangiava pesce, crostacei, e che sembrava felice.

Anche io lo ero, in quel modo un po’ vago in cui si può essere felici dopo un grande spavento, quando ancora non sai se il pericolo è scampato però ti senti bene per il solo fatto che c’è il sole, sei lì, il mondo non si è fermato e ti promette altri giorni luminosi. Dopo il pranzo, riprendemmo la passeggiata sulla spiaggia, ci fermammo a guardare i piccoli negozi che cominciavano al chiuso e proseguivano sulla spiaggia, disponendo gli oggetti ordinatamente e con quella grazia compiuta che per ragioni che mi sfuggono, ritrovo solo in alcuni luoghi, altrove, quel metodo, diventa, suk. Mi piacque così tanto che volli qualcosa da riportare a casa, da tenere con me per sempre. Trovai un bellissimo bricco, a forma di scatola di latte con una apertura su uno dei due lati, che riproduceva l’apertura quotidiana della scatola del latte fresco. Sul piccolo bricco di porcellana c’è il disegno di un gatto, riprodotto per ogni lato, ma non si tratta di un oggetto lezioso, è un oggetto che io guardo tutti i giorni quando apro la credenza per prendere la mia tazza mattutina, è un bricco pieno di poesia, bianco e indaco, il ricordo della mia giornata a Brighton piena di poesia e di passi amorevoli e silenziosi.

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